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Spazio Zen - Novembre 23

Gianni Zen
Gianni Zen
25 ottobre 2023
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Spazio Zen - Novembre 23
Siamo sempre connessi, eppure, per paradosso, soffriamo di incomprensione quindi di solitudine. Ci parliamo di continuo ma non ci ascoltiamo e quindi facciamo fatica a darci una mano.
Le parole che usiamo, dunque, son diventate troppe volte un problema. Il primo motivo, forse, è perché la tecnologia ha sostituito le nostre relazioni. Pensiamo alle nostre famiglie, ma anche ai luoghi di lavoro e al tempo libero. In seconda battuta: proviamo a togliere, dal nostro parlarci, le cose estemporanee: preoccupazioni, sport, politica, attualità, famiglia, lavoro, ecc. Di cosa parliamo quando ci parliamo, che non sia, appunto, legato al presente, al momento, alle situazioni spicciole? Infine, perché nelle relazioni ci aspettiamo sempre più dalle tecnologie, che sono pur sempre strumenti, e sempre meno direttamente dagli altri?
Cioè, perché facciamo fatica a stare insieme guardandoci negli occhi? Insomma, in un’epoca nella quale tutti siamo interconnessi di continuo, sembra che sia più complicato comunicarci sentimenti, pensieri, desideri, situazioni, contesti, esperienze, conoscenze. Ovviamente non si fa di tutta un’erba un fascio ma la linea di tendenza mi sembra chiara. Che sia l’ubriacatura delle parole, in particolare per l’uso distorto dei social?
“Parole, parole, parole”, cantava tanti anni fa la grande Mina. Ma le parole sono comunque indicazioni di pensiero.
Per cui le parole pensano, per dirla con Cacciari. Ma è difficile immaginare quanti si rendono conto di una cosa delicata: se i pensieri che esprimiamo sono contraddittori in realtà non dicono alcunché, cioè sono nulli, vuoti.
Si parla dunque senza dire. E non è per niente facile domandarsi: “ma come stanno realmente le cose?”. Perché è fragile la fiducia reciproca. Basta dare un’occhiata sui tentativi di dialogo sui social. Perche tutti non possiamo pretendere di parlare di tutto. Con competenza, secondo metodo. Ci vuole coraggio per fermarsi un attimo e, prima di chiedere agli altri, farsi un esame autocritico: prima di discutere sarebbe sempre buona cosa lasciarsi discutere.
Perché conta la cosa di cui si parla, non chi la dice. Senza questa avvertenza, che dice il senso del limite, àncora di salvezza e di saggezza, l’ubriacatura delle parole nelle odierne osterie virtuali, cioè i social, diventa inevitabile. Il nostro tempo, dunque, è diventato quello della chiacchiera. E nello stesso tempo della solitudine. Tutti parliamo, ma non ascoltiamo. Cioè ci parliamo addosso, e non diciamo un granché. Del resto, se la realtà, mediata dalle tecnologie, diventa il risultato solo di ciò che percepisco, quello che dunque non rientra nella mia percezione che valore può avere?
Il narcisismo sta già segnando, cioè, le nostre vite. E sta al contempo polverizzando le nostre relazioni, le quali valgono solo il battito dell’attimo fuggente, ma niente più.
È una vera e propria mutazione antropologica del nostro essere e vivere. Per l’intreccio indistinguibile tra reale e virtuale.
Conseguenze concrete? Senso della libertà senza limiti (a parte quelli che ognuno ha deciso di imporsi), contano solo i desideri, niente vincoli morali e niente vincoli conoscitivi. Col risultato che noi siamo solo le azioni che riusciamo a fare. E quelle che non riusciamo a fare? Ognuno da solo, per conto proprio, in solitaria. Anche quando si vive in famiglia.
Non esiste più, idealmente, il “per sempre”. Tutto questo funziona, però, sino a che qualcosa di non previsto e prevedibile rompe il nostro orizzonte e si impone da solo. L’imponderabile nella vita cioè è sempre dietro l’angolo. Allora ci scopriamo tutti fragili, tutti limitati, tutti alla scoperta e bisognosi dell’altro e degli altri. Auguriamo a tutti la speranza di incrociare l’imponderabile, l’imprevedibile. Auguriamo a tutti, cioè, di aprire i propri orizzonti. Non sarà una cosa semplice, ma una sofferenza, ma anche una sorta di via di salvezza, per la scoperta di un orizzonte che è comunque oltre il proprio ombelico, oltre lo spettro narcisistico del modello di vita che oggi sembra andare per la maggiore. Mentre è, al dunque, solo una proiezione illusoria, è solo una illusione. L’illusione che la realtà coincida solo con l’apparire. Ci vuole coraggio, pazienza, umiltà per ricominciare a ripensare ciò che siamo e i legami relazionali.
Del resto, lo sappiamo tutti che le vie della salvezza prescrivono a volte sentieri tortuosi. Come a dire: il buono della vita ce lo dobbiamo tutti un po’ conquistare, e non pretendere come manna dal cielo. C’è un limite a questo usare o abusare delle parole? Direi che questo limite è il silenzio.
Perché il silenzio non è analitico, ma sintetico. Tanto da costringere a fermarsi, a pensare senza il dire, ad ascoltare senza imporre, ad assaporare e gustare l’orizzonte che ci costituisce ma anche l’orizzonte che ci trascende. E l’orizzonte più lo scruti, e più vola oltre i nostri pensieri e i nostri limiti. Il silenzio, così, è la forma più pura di purificazione della parola, interiore o esteriore.
Il silenzio chiede, quindi, la nostra disponibilità a maturare interiorità, pensante e aperta, cioè essenzialità.

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L'autore

Gianni Zen

Gianni Zen, laureato in filosofia, ha dedicato la sua vita professionale alla scuola, prima come docente e poi come dirigente scolastico in importanti scuole del vicentino quali l’Istituto Rossi di Vicenza e il Liceo Brocchi di Bassano. Sotto la sua guida il liceo bassanese ha conosciuto una crescita repentina fino a diventare il secondo istituto d’Italia per numero di ragazzi frequentanti. Persona estremamente attiva, è da sempre sostenitore di una grande riforma del mondo della scuola. In “Spazio Zen” dirà la sua su temi di attualità legati al mondo della scuola e del lavoro.