Il mese di dicembre rimanda inevitabilmente, nel nostro immaginario, alle imminenti festività di Natale.
E non è solo il tam-tam pubblicitario a ricordarcelo.
Ma un qualcosa che, lo sentiamo, viene da lontano e dal profondo. Che è più di una tradizione, di un passato più o meno lontano. Perché dice di un essenziale che è oltre anche le feste che arricchiranno quelle giornate di vacanze e di stare assieme in famiglia e con gli amici.
È qualcosa di più e oltre. Che ci parla e ci richiama, sapendo, guardando ai grigiori del nostro tempo, che non sono tutte rose e fiori.
Certe tragedie e certi dolori, lo sentiamo, faticano a rimanere sullo sfondo, quasi rimossi.
Le fragilità, le solitudini, le sofferenze, i conflitti ci tengono i piedi per terra.
Come dire che la vita è anche tutto questo.
Pensiamo al Medio Oriente, a una Terra definita Santa, mentre invece ci racconta tutt’altro.
È proprio così complicata e impossibile la fraternità umana?
Ah, come vorremmo tutti che, almeno per questo Natale, ci fosse una moratoria di tutti i conflitti, di tutte le sofferenze! Quasi a ripeterci che, almeno a Natale, dobbiamo o dovremmo essere tutti un po’ più buoni, e non solo a parole!
La pacificazione nella fraternità, altro modo per dire l’essenziale.
Con Betlemme come stella polare dei nostri pensieri.
E pensare che Betlemme significa “casa del pane”. Pane essenziale, vero, sostanziale, capace di dare senso e di indicare il bene di tutti.
Un pane non solo risultato di uno sforzo comune, ma di più: fonte di “salvezza”, cioè di senso compiuto. Del resto, “non di solo pane vive l’uomo”.
L’essenziale, dunque.
Viviamo, questo l’invito, questi giorni come preparazione a questo incontro-incrocio con questo bisogno, con questo desiderio, con questa speranza.
Così da vivere i momenti di festa in comune, o i giorni di meritata vacanza, con lo spirito giusto. Perché distrarsi un po’ fa ogni tanto bene a tutti, ma non troppo. Perché poi la vita chiede comunque vigilanza e serietà. La quale non abbisogna nemmeno della distrazione degli oroscopi che ogni anno vengono prodotti o gogo pensando all’anno nuovo, mentre nessuno se la sente di verificare oggi cosa prevedevano un anno fa, o due anni fa.
Ah, quante cose sono cambiate negli anni, come è cambiato il mondo, nelle grandi e piccole cose!
La vita ci chiede sì di andare avanti, ma ci chiede anzitutto un perché. Perché non si vive di sola sopravvivenza, quasi un meccanico lasciarsi andare.
Perché l’essenziale ogni tanto fa capolino. Ed esige la fatica, che è anche gioia, del rischio di pensarla questa nostra vita, individuale, famigliare, sociale, economica, relazionale. Il rischio del pensiero, cioè della coscienza.
Non è la coscienza di ciascuno la sentinella del nostro sopravvivere? La coscienza come sporgenza della domanda di vero, di buono, di bello, di giusto.
Con l’augurio di “Buon Natale” ci diciamo, in qualche modo, la speranza che la concreta nostra “casa del pane” sia la vera Festa, da festeggiare assieme.
Sentiamo il bisogno di farlo assieme (“Natale con i tuoi...”), ma non sempre riusciamo a capire perché.
Quante fragilità, quanti fallimenti, quante cadute, quante incomprensioni?!
Ma fare festa vuol dire di più: l’importante non è cadere, ma diventare capaci di rialzarci tutte le volte che rischiamo di cadere.
Facendoci, dunque, gli Auguri pensiamo a questo.
Augurandoci di camminare alla ricerca del bene, del vero, del giusto.
L’essenziale, quindi, è una speranza, è un donarci reciproco. A Natale ha le sembianze innocenti e pure di un bambino e dell’amore in famiglia: non ci si abitua mai, non ci si deve abituare mai alla sua mancanza, al vuoto della sua assenza.
Perché l’essenziale non è un avere, non è un abito, ma è un essere. Si è.
Ricercarlo costa sì fatica, perché chiede di spogliarci un po’ di noi stessi. Ma una volta intuito, senza pretendere mai di possederlo per sempre, dà una gioia infinita. Perché fa capire il senso della vita, e il valore positivo anche delle cadute e sofferenze che, inevitabilmente, ci possono accompagnare.
Buone feste a tutti. Con gli occhi di un bambino.