“La libertà non è uno spazio libero, la libertà è partecipazione”, cantava Giorgio Gaber.
Una cosa scontata anni fa, mi viene da aggiungere, mentre facciamo fatica a dire che anche oggi sia così per tutti.
Vedendo il calo persistente dei votanti nelle varie elezioni, anche in quelle amministrative, quelle più vicine alla vita dei cittadini, vien proprio da pensare che in crisi oggigiorno è l’idea di democrazia come partecipazione.
Quasi un rimarcare che che non è più scontato sentirsi parte di una comunità, cioè di un comune destino. No, non è più scontato, purtroppo.
Allora, a che serve la politica, ai vari livelli, se non garantisce questo senso di appartenenza ad un comune destino?
Perché prima ancora dei tanti servizi pubblici (sicurezza, scuola, sanità, ecc.), compito della politica è costruire un idem sentire, un senso di comunità.
Insomma, la politica non può non rimandare all’idea di comunità, di un qualcosa di comune.
Se si rinuncia invece a dare il proprio contributo alla costruzione di un senso comune, il paradosso vuole che in realtà, sapendolo o meno, si finirà comunque per delegare ad altri anche la nostra parte. Cioè altri decideranno per noi su noi stessi, al posto nostro.
In poche parole, chi non vota, non scegliendo una delle proposte, in realtà favorirà chi vincerà le elezioni. Per cui, anche chi non vota, in realtà vota lo stesso.
Questo sul piano formale.
Nella sostanza poi chi sarà chiamato a governare in realtà chi rappresenterà?
Rappresenterà solo una minoranza. Che è tale rispetto agli aventi diritto, ma non rispetto ai votanti effettivi.
Votare, dunque, è un diritto, ma prima ancora un dovere, il dovere della corresponsabilità.
Resta da definire il modo d’essere del “far politica”. In questo ci aiuta un chiarimento che dobbiamo ad un grande filosofo italiano del ‘700, Giambattista Vico, il quale aveva fatto intendere che la parola “politica” non deriva dal greco “pòlemos”, il quale significa guerra o conflitto, ma da “pòlis”, cioè comunità.
Insomma, la buona politica non si riduce al conflitto continuo, ma punta al confronto in positivo di idee, progetti, prospettive.
Come poi la politica prevede la scelta dei suoi rappresentanti? Parlo della legge elettorale. O, meglio, delle molte leggi elettorali in vigore in Italia, fonte di un certo disorientamento tra i cittadini. A giugno, ad esempio, voteremo per le europee con la legge proporzionale, con sbarramento al 4%. Ma solo per le europee. Nello stesso giorno, nei comuni nei quali si vota, la legge elettorale sarà diversa, dopo avere votato alle politiche con un’altra ancora. Un po’ di riordino non sarebbe male.
Resta una domanda: quale è il sentimento richiamato, per lo più, nella dialettica politica? È il sentimento della paura. Penso qui al padre del moderno Stato assoluto, come Hobbes, sino al maggiore filosofo del ‘900, cioè Heidegger.
Ma c’è da chiedersi se la paura sia il solo sentimento che dovrebbe essere richiamato nel corso del confronto politico tra i diversi partiti. Mi viene in mente, ad esempio, il concetto aristotelico di amicizia, quindi un valore positivo, rispetto a quello negativo della paura.
Diversa è la qualità dell’idea di convivenza sociale che ne consegue. Cioè qualcosa che ci riguarda tutti da vicino. E tutti dovremmo contribuire a costruire una convivenza pacifica, aperta, solidale.