Il mese di dicembre ci dice che manca poco alle festività di Natale. Quindi anche alle vacanze, cioè ai momenti di vita in famiglia, tra amici, in qualche parte lontano da casa.
Ma sarebbe ancora Natale senza il Natale, senza il ricordo o il richiamo alla “notte santa”?
Come sentimento prevalente, vorremmo tutti, credo, pensare a queste giornate con un semplice auspicio: trovare un po’ di pace. Secondo i significati, grandi e piccoli, che ciascuno riesce a dare.
Trovare un po’ di pace, cioè una piccola luce che riesca ad illuminare le complessità e le contraddizioni odierne, ai vari livelli. Un anelito di speranza, dunque, ben rappresentato dall’immagine di quel Bambino nella mangiatoia del presepe francescano di Greggio.
Solo una favola per bambini, però, la festa di Natale, con tutto il corollario delle tradizionali buone intenzioni?
Eppure sentiamo che il Natale, pure schiacciato tra abitudini e vacanze, rimane pur sempre simbolo di una dimensione intima, oltre le maschere del consumismo. Lo sentiamo così, anche se forse non lo viviamo proprio così.
Solo per il 6% degli italiani, a far fede sugli ultimi dati Censis, è ancora presente una chiara sensibilità religiosa, al di là della frequenza domenicale che si attesta ancora sul 15%.
Il tempo del Natale, rispetto agli altri dell’anno, è l’unico ad essere segnato dal tempo dell’attesa, di una speranza che ci si augura non si esaurisca con qualche regalo e poco più. A volte l’attesa della festa vale più della festa stessa.
Che sia il segno indiretto di un bisogno tutto particolare, di uno stacco dalla frenesia e velocità del tempo che ci sta sfuggendo senza saperne il perché?
La nostra vita sembra una rincorsa senza limiti. Eppure il Natale ci dice che l’essenziale è ridotto al minimo: un bambino, la precarietà della vita di una famiglia migrante, un alloggio di fortuna.
Forse è proprio questo invito all’essenziale, nella notte santa, a spogliarsi del “troppo” che ci circonda, che sta bussando nel nostro cuore, oltre tutte le maschere e le apparenze.
E diciamo questo nel mentre quei luoghi sono segnati da una tragedia senza limiti, da una violenza senza futuro, da una follia che non ha e non può avere alcuna giustificazione.
Natale, meglio la città di Betlemme, significa “casa del pane”, del pane della vita, e non della morte e distruzione.
Ma in quella grande contraddizione, un piccolo insignificante segnale di luce, la luce di un bambino, ci sta indicando altre strade, anche politiche, sociali, economiche, culturali, spirituali.
Il Natale, del resto, si ripete ogni anno perché segno di una vita che si rinnova di continuo, ma nella ricerca di quell’essenziale che è ben lontano dalla nostra mentalità dominante.
“Viva chi crea vita”, amava ripetere Goethe.
Il Natale, dunque, come una luce che si fa pungiglione per tutti noi attraverso un bambino, tutti i bambini. Anzitutto i bambini vittime di tutte le guerre. Vittime innocenti. Vittime di un pungiglione che si è travestito di morte, mentre dovrebbe vestirsi di vita. Ecco l’eterna contraddizione umana.
Hannah Arendt, di famiglia ebraica, contraria alla nascita di Israele, perché contraria a tutti i nazionalismi, amava ripetere in “Vita activa”, riprendendo il Vangelo, che la natalità è la buona novella che dice l’essenziale: “un bambino è nato tra noi”. Segno della vita che inizia, che si rinnova, che ci richiama ai nostri diritti e doveri attraverso la salvezza di un Bambino indifeso.
Con Eraclito, il mondo è di un bambino che gioca.
Il Natale, dunque, non può limitarsi ad essere un mero “rito di passaggio” per riempire il rischio del vuoto di una vita che passa senza saperne il perché.