Lo sappiamo tutti, la storia non si fa con i “se”.
Ma questi “se” forse possono darci una spinta alla speranza, in un mondo sempre più inghiottito su se stesso.
Questa la proposta: “e se tornasse San Francesco in questo nostro tempo? Cosa potrebbe dire e fare?”.
Oggi il suo nome è tornato di moda. Addirittura, il governo ha recuperato la Festa del 4 ottobre in suo onore, cancellata nel 1977. Dimenticando, come ha ricordato il presidente Mattarella, che la Festa in realtà era dedicata anche a Santa Caterina, entrambi Patroni d’Italia.
Tanti sono i libri usciti in queste settimane.
Penso non solo al libro postumo di Papa Bergoglio, ma anche ai tanti libri pubblicati in pochi giorni (Cazzullo, Barbero, Busi, Sorrentino, Andreoli, Daverio, Cardini). Come ad invocare un grande del passato.
Il prossimo anno cadono gli 800 anni dalla sua morte. Oggi da chi andrebbe San Francesco, se potesse tornare in vita, sarebbe riconosciuto nella sua lucentezza, quanti sarebbero disposti a seguirlo, non solo a parole?
Dati i tempi, qualcuno ha ricordando l’incontro, storicamente accertato, di Francesco col sultano Malik al-Kamil nel 1219, nell’ambito della Quinta Crociata. Ma la sua mediazione, lo sappiamo, allora non produsse alcunchè, nonostante le ore passate col sultano.
Per lui era più di un atto dovuto dialogare con tutti. Senza alcuna pretesa di proselitismo. Perché dialogare è riconoscersi.
Credo che anche oggi abbia un valore la domanda di frate Masseo a Francesco: “Perché a te ogni persona pare che desideri di vederti e d’udirti e d’ubbidirti? Tu non se’ bello uomo del corpo, tu non se’ di grande scienza, tu non se’ nobile: onde dunque a te perché tutto il mondo ti vegna dietro?”.
Una bella domanda, un enigma, potremmo aggiungere.
Forse, provo una risposta, Francesco ha semplicemente incarnato i valori evangelici.
Se bussasse alla porta del nostro tempo e delle nostre case e coscienze, saremmo anzitutto in grado di riconoscerlo? Credo che non lo riconosceremmo. Forse perché ognuno di noi si sente legato più all’immagine che alla sostanza della sua testimonianza di vita.
Dalla sua storia qualcosa abbiamo imparato. Le tracce ed alcune parole ci soccorrono: la preghiera, l’amore per i nemici, la povertà, il dialogo, il perdono, la pace, l’amore per il creato.
Pensiamo al suo invito alla povertà vera, cioè alle tante povertà della nostra vita, non solo materiale.
Chi di noi va in Chiesa lo fa per trovare un po’ di pace, per sentire (raramente) a Messa qualche parola buona. Lui invece ci entrava per convertire se stesso, non per pacificarsi con i propri dubbi e angosce.
Per noi il povero non esiste più, tanto da preferire altri termini: l’emarginato, l’asociale, il non inserito, chi non è protetto dalla nostra società, il disadattato. Addirittura, sul piano socio-economico consideriamo la povertà come una colpa, un vizio.
Per Francesco invece il povero era ogni persona toccata dalla grazia. Una grazia che lo aiuta a liberarsi da tutto, compresi i privilegi e le rendite di famiglia o di società.
Insomma, se la nostra società è fondata sulla proprietà, lui ci dice che è la rinuncia la nostra salvezza.
Ci sembra suggerire, cioè, uno stile di vita alternativo: impariamo, in sostanza, a non contare sul mondo.
Non solo, ci suggerisce che è in fondo al male che possiamo rintracciare segnali di bontà, una speranza di pace. Un invito sconcertante per noi. Una sfida davvero paradossale.
Pensiamo poi, dati i tempi, all’invito evangelico di amare i propri nemici.
Per vincere l’odio. In che modo? Non usando, come facciamo oggi, la regola dell’interesse, del tornaconto, servendoci dunque delle stesse armi del nemico. Francesco ci dice invece di amare il nemico come amiamo noi stessi.
Facile a dirsi. Immagino l’irrisione che da sempre accompagna, anche in contesto cristiano, questo invito del frate di Assisi.
Una domanda ci sorgerebbe spontanea: perché il Vangelo predica cose così ardue, difficili, irrealizzabili?
Eppure il suo sogno lo comprendiamo: quello della fratellanza, della pace nella fratellanza.
Ma l’uomo moderno fa fatica a seguirlo. Vive di altre dominanti forme religiose (ideologie), ma senza Dio.
L’uomo moderno vive l’illusione cioè di essere libero, pensa di essere libero. In realtà ne ha paura, vive di paura, tanto da rinchiudersi in se stesso, e nei propri confini. Basterebbe rileggere “Fuga dalla libertà” dello psicanalista Erich Fromm, del 1941. Confini e muri, come quelli che ritroviamo in Terra Santa.
Cioè viviamo, direbbe Francesco, nella illusione di regolarci da soli (individui, gruppi, nazioni). Debitori del caso e della nostra capacità di adattamento. Come se si trattasse di un “merito”.
La “perfetta letizia”, la gioia per Francesco, è paradossale, perché si fonda sulla rinuncia del nostro mondo. E’ questa la sua follia, che è la follia di Dio.
Oggi letta come una mera curiosità, una stramberia.
In 800 anni la sua memoria ci ha accompagnato, ma con distacco. L’abbiamo così ridotto a leggenda, a mito.
Allora, se tornasse oggi, facile immaginare il suo stupore. Ritroverebbe un mondo segnato dalla maschera della volontà di potenza, ma immerso in una disperata solitudine.
Con il nostro Occidente totalmente disilluso rispetto alla sua matrice cristiana.
Dopo 800 anni facciamo entrare, in rari casi, nelle nostre case qualche spiraglio delle parole e della vita di Francesco, ma lasciamo fuori dalla porta la cosa più importante: le sue verità, cioè la pazienza, l’amore, il perdono.
Il “do ut des” ci ha completamente trasfigurati, tanto da considerare il bonum solo il nostro (singolo, gruppo, nazione). Non è mai quello degli altri.
Anzi, nel nostro tempo niente dà più noia della povertà, nessuno disturba più del povero, del migrante, del disagiato.
Eppure lo spirito di Francesco è vivo nella violenza che vediamo ogni giorno in tanti modi, come nel solenne invito al perdono di un manzoniano fra’ Cristoforo verso Renzo.
E’ la grande linea del “Cantico” che passa per Dante ed arriva ai “Promessi sposi”.
Oggi le offese a Dio si fanno sempre più sanguinose, soprattutto con gli innocenti che muoiono nelle strade. Nell’indifferenza.
La figura del “diavolo”, dell’ingannatore, la ritroviamo nella cultura della distrazione, dell’omissione, dell’omertà.
Il rovescio della lezione di san Francesco.
Ci siamo abituati cioè a lasciare fuori dalla porta la verità del cuore.