Ve conto questa. Quando anni fa a Venezia mi hanno proposto come tesi di Laurea l’“Emigrazione Veneta in Brasile” ne rimasi così stupito che chiesi subito: “ma quanti Veneti saranno mai emigrati perché io ci dedichi una tesi!”. Il mio prof allora accese il pc e su Google scrisse la parola: Zonta, il mio cognome. “Bene.” Mi fa dopo un attimo. “Di Zonta in Italia, con epicentro a Bassano ce ne sono circa 600. Di Zonta, originari della tua famiglia, che 100 anni fa sono partiti in Brasile... ora ce ne sono quasi 10.000.”
“Cosa?!” è stata la mia risposta sbalordita. “Ma quando sono partiti questi miei parenti? E per quale motivo? E perché non ne so niente?”.
Beh, secondo uno studio organizzato dall’Assessorato alle Politiche Sociali di Padova, solo un ragazzo veneto su dieci ha sentito parlare a scuola degli oltre 5.000.000 di corregionali emigrati dalla nascita del Regno d’Italia al 1970. Del fatto che ci siano più di 15.000.000 di nostri parenti all’estero praticamente nessuno. Proprio come me.
E allora l’ovvia domanda che mi sono fatto è: “Perché non si vuole che i ragazzi veneti conoscano la storia della loro gente emigrata all’estero?”.
L’amara risposta l’ho ricevuta poco dopo sulla mia pelle.
Una domenica di qualche anno fa gironzolando per un mercatino dell’usato mi capitò di vedere un lembo di stoffa rosso e oro, sbiadito, che usciva da una scatola di cartone. Si trattava di una bandiera piuttosto grande con lo stemma di due leoni che sostenevano una torre. Era la bandiera di Bassano, la mia adorata città natale.
“È della torre civica!” Mi son sentito dire da l’uomo della bancarella. “Quando l’hanno cambiata uno del Comune, invece di buttarla via me l’ha regalata. Te la dò per 20 euro.”
Qualche mese dopo, quella stessa bandiera, prendeva l’aereo con me per il Sud del Brasile. Un mondo pressoché sconosciuto, grande come un paio di Italie, una Venetolandia, cosparsa da cittadine come Nova Vicenza, Nova Treviso, Nova Padova, Nova Trento, Valsugana e... Nova Bassano.
Informati del mio arrivo a Nova Bassano, i gestori dell’unico albergo della cittadina a mia insaputa avvisano il sindaco e la mattina successiva mi trovo un autista privato che mi porta il giorno intero a spasso per la città e per le colonie sperse nei campi. Vengo poi invitato nella sala consigliare e con un po’ di cerimonia consegno la bandiera alla cittadina fondata 150 anni fa da bassanesi. Termino la giornata parlando in un paio di classi delle scuole Superiori. Un’esperienza memorabile.
“Vorremmo ricompensarti del tuo gesto.” Mi fa il sindaco.
Di fronte alle insistenze rispondo che magari mi sarebbe piaciuto avere una maglietta “sportiva” con scritto Nova Bassano, così per ricordo. Lo dico e poi non ci penso più. Ecco però che, la mattina della mia partenza mi trovo una busta con all’interno tre magliette. La prima della squadra di calcetto. La seconda di pallamano. Davanti alla terza resto senza parole. Mi trovo di fronte a un cimelio degli anni ’50. La divisa del primo campionato di calcio del Nova Bassano. Il tessuto è di un materiale ruvidissimo e lo stemma ricamato a mano. Ne erano rimaste due... una l’avevano regalata a me. Ovviamente per me voleva dire tantissimo. Forse il gioiello più grande e prezioso che rappresentava tantissime cose. Il mio studio, la loro gratitudine, quei posti lontani, tante cose.
“È troppo per me!” Ho detto una volta tornato a Bassano. “Questa maglietta può rappresentare l’inizio di una reciproca conoscenza tra due pezzi di terra divisi da un Oceano.”
Ipotizziamo allora che, con in mano la mia preziosa maglietta (che chiameremo della squadra dell’A.) abbia chiamato una squadra di calcio del vicentino che chiameremo, così a caso, del B. e abbia raccontato la storia del gemellaggio. Supponiamo che un dirigente del B. mi prometta che tale mio prezioso reperto avrebbe avuto un posto speciale all’interno di una bacheca. Facciamo infine finta che, due mesi dopo, non sentendo più alcuna notizia cominci a chiamare ripetutamente tal dirigente del B. per sapere della maglietta. Sempre immaginiamo che non me la vogliano far vedere e che la tirino lunga per mesi e mesi finchè di fronte alle mie pressantissime insistenze (ed essermi piantato fisicamente davanti allo stadio) mi dicano in tono poco garbato: “E gavevimo mesa su na carega... ma te se, co tuti i tosi che pasa par de qua.” E per l’eventuale gemellaggio supponiamo infine che mi rifilino due magliette sporche con il logo di una famosa marca di jeans prese da un sacco di nylon buttato dentro un armadietto e che mi diano il ben servito con in faccia un bel “finalmente se o ghemo cavà dai maroni.” Supponiamolo...
Beh... Dopo aver scritto la prima parte di questo articoletto con ancora in mente quanto mi è ipoteticamente successo con la direzione del B., Antenore, dal mondo dei sogni, a una certa ora della notte mi è venuto in soccorso.
“Ehi bocia!” Mi fa. “Sito ncora incasà pa a to ippottettica maieta?”
“Eh sì...” Dico all’ormai amico veneto-troiano di 3.500 anni fa.
“Vien dai!” Mi fa battendo su una spalla. “Voio che te a scolti na storia daa boca dei to antenati.”
Così in un niente mi ritrovo in un’ombrosa osteria di paese. Due tavole piene di teste basse davanti a qualche ombra de vin. Il silenzio è carico di tensione. I visi degli uomini sono magri, tirati, tristi. Un tipo con baffi e pizzetto, vestito alla moda di fine ’800, guarda la triste scena. È Roberto Tiberio Barbarani, il poeta veronese autore de I Pitochi.
“Berto!” Fa Antenore. “Parchè i xe partii i me tosi? Digheo qua al me bocia.”
Il Barbarani mi guarda e in un attimo la sua voce si propaga tra le quattro mura scrostate dell’osteria.
“Fulminadi da un fraco de tempesta... ogni paese el g’à la so angonia e le fameie un pelagroso a testa! Crepà la vaca che dasea el formaio, morta la dona a partorir ‘na fiola, protestà le cambiale dal notaio, na festa, sarai en l’ostaria, co un gran pugno batù sora la tola: «Porca Italia*» i bastiema: «andemo via!» (*Regno d’Italia 1866-1946).
“Lo so.” Rispondo mogio. “Ma eravamo uniti almeno. Sotto un’unica bandiera! Tutti volevano l’Italia unita. Tutti no?”
All’improvviso eccomi su una nave a vapore. La prua è ammassata di gente. Sono tutti zitti mentre il corpo di un bambino viene gettato in mare. Tra le onde dell’oceano un vecchio sbiascica qualche frase di cui riconosco le parole: “Co San Marco comandava / Se disnava e se senava. Soto Franza brava xente / Se disnava solamente. Soto casa de Lorena (Austria) / No se disna e no se sena. Soto casa de Savoia / De magnar te ghe voia. I ne ga portà na fame roja e ne toca andar via. Vaca troia! Vaca troia!”.
“Ma a Roma di certo non lo sapevano.” Dico col groppo in gola.
Sul ponte della nave assieme ad Antenore vedo ora due persone in piedi che guardano quel triste spettacolo di umani. C’è il cremonese Stefano Jacini autore dell’inchiesta agraria voluta dal Regno d’Italia nel 1884.
“Digheo!” Fa Antenore brusco.
“Avevo riferito in parlamento che le condizioni delle terre venete erano allo stremo. Della denutrizione, delle case-tugurio, del lavoro minorile, dell’analfabetismo, della degradazione... della pellagra!”
“Alcune volte i Veneti per fame vendevano i propri figli piuttosto di vederli morire.” Continua un uomo alto e magro con baffi e cappello. È de Amicis l’autore del famoso libro “Cuore”. “L’ho raccontato nell’episodio del “Il piccolo patriotta padovano”... ma allora sembrava quasi accettabile.”
“Le famiglie venete che vendevano i propri figli 150 anni fa”. Penso tra me. “Al tempo dei nostri trisnonni?”. “I Savoia i ga provà a tegnerli co a testa basa fin l’ultimo i nostri tosi.” Mi dice Antenore con rabbia. “E quando che i ga visto che no i podeva fermarli i ghe ga dito: rangieve!”
È scritto sui libri. I nostri sono stati lasciati soli, senza medici, preti e traduttori, senza commissari di bordo e... alla mercè di truffatori. Beh, tantissimi sono morti. Altri si sono salvati e con le montagne di soldi spediti dall’estero hanno salvato anche quelli rimasti in terra veneta. Poi... sono diventati dei parenti scomodi. La politica se ne vergogna e vuole che se ne parli il meno possibile, men che meno sui libri di scuola. E così noi non li conosciamo perché ce li hanno nascosti. Eppure loro incredibilmente ci amano, l’ho visto io nei loro occhi, nei loro abbracci e nei post che pubblicano sui social. L’oblio nei libri di scuola dei nostri ragazzi, come la storia della maglietta per il gemellaggio, si riassumono in una sola parola triste e grigia: ingratitudine.
Conoscere la storia nascosta dei Veneti è importante per sapere chi siamo e l’Emigrazione ne costituisce una parte indissolubile e fondamentale. In tanti siamo grati alle nostre famiglie emigrate e lo testimoniano studiosi di varie discipline e le oltre 200 associazioni venete sparse per il mondo. Noi ci siamo e continueremo a tifare per loro. Forza Nova Bassano! Forza Nova Bassano! Alè! Alè!
P.s. Ah! Per via della maglietta dell’A., cari dirigenti della squadra del B. ...ma che gran figura del C.!