transumanze e buona gente
Sapete che la parola “Ven-eti” ha la stessa radice linguistica della Dea dell’Amore “Ven-ere”? Incredibile vero? Beh, sappiate allora che tale prefisso (Ven-), proviene dal ceppo linguistico indoeuropeo, vecchio di oltre 5.000 anni, e significa nientemeno che... “Amore”! Ne risulta quindi che i Veneti sarebbero stati ritenuti, sin da tempi immemorabili, come “genti amorevoli”, “amichevoli” o, come diremmo sinteticamente noi ora, “bona xente”.
Un chiaro esempio di “bona xente” l’ho incontrata qualche settimana fa partecipando a una sensazionale ricorrenza praticata nelle nostre montagne da secoli, se non addirittura da millenni: la vacarìa veneta (o trasmalgada). La transumanza delle vacche/mucche, dalle malghe dell’Altopiano di Asiago fino alle stalle della pianura alto-vicentina, ogni anno si sviluppa in tre giorni, fatti interamente a piedi, accompagnando oltre 500 bestioni, da più di un quintale, per 80 chilometri. Dal 22 al 24 settembre scorso, da Foza a Bressanvido, sotto un tempo che è passato rapidamente dal freddo e pioggia fitta, al sole che bruciava la pelle, ci siamo trovati in tanti: un centinaio di persone almeno, uomini e donne, veterani e ragazzini, che per un intero fine settimana hanno lavorato gomito a gomito con orgoglio e tenacia. Un piccolo battaglione di genti, a piedi e a cavallo, perennemente sostenuto da un impianto logistico capace di offrire, senza limiti, vino, birra e aranciate, sopresse e formaggi, minestroni e interessanti dolci tipici come “a putana”.
Con l’espressione nei volti dei miei compagni di vacarìa che diceva: “Arao qua el fighetin de Basan. Ocie, vedemo ndeso sto qua quanto chel dura” la mia partenza da Foza a Gallio è stata incredibile! Pioveva che dio la mandava, le nuvole erano bassissime, l’atmosfera sovraccarica di tensione e gli animali eccitatissimi come una miriade di forsennate 14enni a un concerto degli anni ‘90 dei Duran Duran! Vacche grosse come motoscafi, che non volendo sentire ragione, correvano sotto il suono assordante dei campanacci portati al collo. In quel baccano infernale, simile a un rave party da migliaia di megahertz, tra di noi, che provavamo a rallentarle, non ci si sentiva a 20 centimetri di distanza! E io ero lì, pieno di orgoglio, in quel tratto di strada in cui una parte dei miei antenati enego-asiaghesi avevano vissuto, camminato e lavorato. In quella strada stretta, che da sempre unisce i due centri dell’Altopiano dei Sette Comuni, con spesso il cuore in gola “go tegnuo bota!” e sono poi andato avanti fino alla fine.
Volete sapere se anche in sta occasione ho preso sonno? Ma certo!
È stato precisamente a qualche chilometro da Marostica, durante l’ultima sosta del secondo giorno. Con le vesciche su entrambi i calcagni, appena mi sono disteso sull’erba, non ho avuto neanche il tempo per un profondo sospiro a occhi chiusi che, manco a dirlo, come un razzo nei miei sogni è arrivato lui: Antenore, proto-genitore dei Veneti, nobile comandante della cavalleria troiana, ecc. ecc.
“Beh Zonta?!” Sento dire con la voce grossa il mio spirito guida. “Te sarè miga stufo?”
“So proprio finio!” Gli rispondo sorridendo. “Sò stufo agro Antenore caro... ma che beo!”
Antenore ride mentre una mano si appoggia alla mia spalla. “Bravo Marcheto!”
All’improvviso accanto a me è apparso un variegato gruppetto di gente, tra cui spicca un uomo, alto e biondo, che porta una divisa verde e fuma la pipa. Gli occhi sono indubbiamente quelli della mia famiglia originaria dell’Altopiano: è mio bisnonno Caregnato, guardiaboschi nel primo Novecento, citato dal celebre Rigoni Stern su “Le stagioni di Giacomo”.
“Quante vacarìe go visto ne a me vita!” Lo sento dire mentre con la punta metallica del suo bastone batte nervosamente l’asfalto. “Quante vacarìe de bestie... e de xenti!”
“Di genti?” Gli domando subito. “Di che transumanza stai parlando?”
“Quando xero bocia, ancor prima de a Guera de el ’15-’18, a vegner xò da i monti go visto paeseti intieri fati de fameie.” Mi risponde sottovoce. “...che partiva come bestie a far l’America in Brasie.”
“Ma perché se ne sono andati?” Gli chiedo immediatamente.
“Ai tempi de me nono, quando ancora ghe xera a Republica se viveva benin.” Continua a parlare il mio avo. “Po en manco de sento ani xe vegnui a comandar prima i Francesi de Napoleon, po’ i Austriaghi de Checco Beppe e aa fine i Taliani da el Piemonte. Se pa 50 ani, co i vixini de l’Austria no se faxeva tanti salti, ma almanco se se trovava co xente seria, precisa e onesta ...pena xe rivà i Savoia i ne ga portà fame nera e tasse. Cossì pa tante fameie no ghe xera scelta: o morir de fame o scampar.
“Mi sembra impossibile!” Mi viene da rispondere. “Come si è potuti arrivare a queste condizioni?”
“A guera!” Mi dice Antenore. “Quea che da 150 ani i libri de scoea Taliani i ciama co orgojo “Risorgimento” pa i Veneti xe stà a rovina. Pa far contenti i gnanca el 2% de i Veneti, fati de siori e de paroni (nobiltà e i borghesi di città), che voeva esar Taliani pa far pì schei e cariera fasie ...i Savoia i xe pasà sora a el 98% de a popoasion de pore anime che soeo voeva lavorar e tirar su fameia en pace.”
“Ma come?” Chiedo guardando attorno il resto del gruppetto.
“El Re dea Italia pa finansiar a guera co l’Austria xera rimasto sensa schei.” Mi risponde il mio avo. “E cossì pa riciaparse prima ga venduo e tere demaniai ai pien de schei e po ga meso su quea maedeta tassa su el macinato.”
“Terre demaniali? Tassa sul macinato?” Guardo Antenore. “Di cosa state parlando?”
“Le terre demaniali erano dei campi e dei boschi a uso comune dove - prima - i poveracci potevano portare la vacchetta a pascolare e raccogliere la legna per scaldarsi e cucinare”. Mi risponde un uomo in panciotto e pantaloni bianchi, vestito alla moda dei paroni di fine ‘800. “Beh, già che al Regno d’Italia servivano soldi ...a noi, latifondisti e borghesi di città, i Savoia quei prati e boschi ce li hanno venduti. E co xe diventà roba nostra guai chi se sognava de tocarla!”
“E la tassa sul macinato?” Domando con la rabbia che mi sta montando.
“Dal 1868 al 1880 i Piemontesi hanno tassato la povera gente proprio su quel poco che poteva mangiare: la polenta!” A parlare adesso è un uomo con una borsa da dottore in mano. Si chiama Carraro ed era il medico che a fine ‘800 si occupava della situazione socio-sanitaria dell’area Bassano-Asiago. “L’ho scritto nella mia verifica ufficiale: nel 1872 la vita media dei contadini era di 27 anni e mezzo!”
“Ma nessuno protestava? Nessuno nelle Venezie si è ribellato?”
“Ci hanno provato a Milano!” Sento parlare un tipo col barbone e papillon. È Giosuè Carducci. “A fare la Protesta dello Stomaco sono andati in tanti in piazza il 7 maggio 1898. Il re Umberto I di Savoia (nei libri di storia italiani chiamato “il Buono”) ha ordinato al generale Beccaris di sparargli addosso con i cannoni. Dopo aver ucciso 83 persone, e arrestate 2.000, è stato premiato con una bella medaglia sul petto.”
“Anca noialtri ghe ghemo provà!” Parla ora una donna vestita da contadina. “A nostra protesta se ciamava La Boje (la boje e de boto la và de sora). En el rovigoto ghemo fato i primi sioperi agrari de Italia. Ghemo resistio. Po i xe rivai i carabinieri e ne ga meso en prixon. I libri de scoea taliani no i parla mai de noialtri.
Quando il campanaccio di una vacca frisona mi passa di fianco torno alla realtà risvegliandomi nervoso. Guardo i miei compagni che si preparano a ripartire. Qualcuno mi chiama. Io alzo il braccio e continuo la mia prima transumanza con l’animo turbato.
Qualche giorno più tardi, con il pc acceso, comincio a scrivere questo piccolo articolo con ancora in mente il periodo di miseria che i nostri avi hanno passato dall’annessione taroccata al Regno d’Italia al primo ventennio del ‘900. Le condizioni di oggi sono indubbiamente migliori ma le tasse per i Veneti restano ancora incredibilmente alte. Dalle nostre terre fatte di persone per cui il senso del lavoro è fortemente intriso di etica, volontariato e di senso del dovere, vedere altre parti della Penisola che si comportano indecorosamente nei nostri confronti mi fa arrabbiare! Sapere che siamo stati per decenni la Locomotiva Produttiva d’Italia, che il modello imprenditoriale veneto degli anni ’80 è stato oggetto di studio nelle maggiori Università economiche degli Stati uniti, che negli ultimi vent’anni a causa dell’eccessivo peso fiscale ci sono stati centinaia di suicidi di imprenditori veneti e l’inevitabile fuga di aziende e di conoscenze tecniche all’estero. Che il fisco italiano (ogni anno!) non devolve alla nostra regione più di 16 miliardi di euro veneti (fonte: Sole 24 ore). Ma soprattutto sapere che nonostante le nostre finanze siano da sempre in positivo (fonte: Istat) per ogni bambino nato oggi nelle Tre Venezie gli venga calcolato, col suo primo vagito, anche la sua bella parte di debito pubblico italiano pari a 60.000 euro (fonte: Sole 24 ore) ...beh, non so voi ma a me questo mi tira matto.
E insomma se noi Ven-eti da millenni siamo considerati come un popolo buono, docile e amorevole non sarà che sia poi vero, come diceva me nona, che quei che i fa i massa i boni alla fine ...i xe i stesi che i pasa sempre da .....i?!
(lascio alla sensibilità del lettore la fine del noto proverbio.)